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A Theory of Fun for Game Design

Il vostro primo libro sulle basi per creare un videogioco.


Se mai cercaste un mattoncino da cui partire, una base sull'approccio sul come e sul perché della creazione di un videogioco, A Theory of Fun for Game Design di Raph Koster è un inizio perfetto. Adatto anche a chi non sa nulla di programmazione, questo libro è godibile, spiritoso e soprattutto comprensibilissimo. Un piccolo viaggio nell'arte del game design, approfondendone più gli scopi che le regole. Non è una guida o un manuale, ma una decostruzione consuntiva delle meccaniche che rendono divertente un (video)gioco. Un'ottima lettura per apprendere vocabolario e "masticare" un po' del linguaggio e soprattutto dei crucci e degli obiettivi che popolano la mente di un game designer. E metà delle oltre 200 pagine sono occupate da illustrazioni (spesso eloquenti quanto il testo) dell'autore stesso. Importante: per capirne a fondo l'ironia o alcuni riferimenti è consigliabile una buona conoscenza dell'inglese, anche se con un livello poco più che scolastico potrete cavarvela più che bene.



Chi è l'autore


Raph Koster è un veterano del game design, figura riconosciuta dall'intera industria del gaming, oltre che imprenditore e capo di Playable Worlds Inc. È stato Lead Designer e Director di grandi titoli come Ultima Online e Star Wars Galaxies e ha contribuito a colonne sonore, storia, arte e game design di numerosi altri giochi, da quelli per Facebook a quelli per console portatili. Pensatore di riferimento, Koster tiene conferenze sul game design in tutto il pianeta. Per farvi un'idea più chiara sul personaggio, vi consiglio di dare un'occhiata al suo sito, in particolare a questo articolo del suo blog.




Il libro tratta di narrativa?


Se avete cliccato sul link al suo blog avrete sicuramente letto la frase in grassetto: "Narrative in a game is not a mechanic. It's a form of a feedback." Un assioma che si presenta in parte anche in A Theory of Fun.


Non è una guida o un manuale, ma una decostruzione consuntiva delle meccaniche che rendono divertente un (video)gioco.

All'acquistare questo libro mi chiedevo se potesse offrire degli spunti specifici sulla costruzione dell'aspetto narrativo di un videogioco. La risposta è nì, così come per chi vuole studiare game design e si è posto la stessa domanda. Non è un manuale, ma una riflessione sul senso. Tutto il saggio si propone come un percorso sulle motivazioni del giocatore come essere cognitivo e sulla funzione del gioco, sui meccanismi con cui fa leva sul nostro cervello partendo da quello che Koster chiama "pattern", ovvero un sistema che mostra la sua essenza attraverso la ripetizione. La ripetizione in un videogioco non è dannosa, anzi, è un modo efficace di permettere l'apprendimento del giocatore. E il giocatore che apprende è un giocatore che migliora. Moltissimi dei videogiochi che conosciamo sono una serie di pattern che ci permettono di apprendere (e dominare) le dinamiche del gioco stesso ed è una delle ragioni per cui è così difficile creare una buona storia per un videogioco. Se la novità e la sorpresa tengono alta la nostra attenzione di spettatori, la nostra curva di apprendimento (e il nostro grado di divertimento) di giocatori non può seguire le stesse regole, perché dobbiamo avere il tempo di apprendere le meccaniche di gameplay. Che la storia sia il feedback di un videogioco e non una meccanica? Questo è quanto sostiene Raph Koster. La seconda edizione (non troppo diversa dalla prima) di A Theory of Fun è del 2013, mentre l'articolo che ho condiviso qui in alto è di un anno prima. Dire se è ancora un concetto esportabile a ogni genere di videogioco è sempre più difficile, vista la varietà del mercato. Ciononostante, voglio prendere in mano un capitolo di questo libro che sì, tratta anche di narrativa come componente che può contribuire all'intrattenimento del giocatore.



Quello che i giochi non sono


Capitolo 5. "I giochi non sono storie". Questa affermazione è incontrovertibile. Un film ha una colonna sonora, ma non è musica. Se i giochi non sono storie, tuttavia, la finzione può nascondersi in ogni gioco. Nella dama, ci sono pedoni che diventano dame, negli scacchi re, regine e torri, propri di un immaginario medievale che riconosciamo subito. Non vediamo vettori o figure astratte, ma elementi fittizi con cui identificarci nella battaglia. Oltre all'esempio della dama, l'autore cita anche i problemi di matematica che utilizzano la finzione per aiutare i bambini a visualizzare la soluzione ("Mario ha 5 mele e ne dà 2 a Caterina", per intenderci). Allo stesso modo, lo storytelling di un videogioco può aiutare ad assimilarne le meccaniche. Ma solo assimilando le meccaniche possiamo "battere" un gioco, e non godendocene semplicemente la trama. Proprio nel capitolo in cui si parla maggiormente di narrazioni, il game designer dà la sua risposta al quesito centrale del libro, la definizione di divertimento, ovvero "è il feedback che ci dà il cervello quando assorbiamo dei pattern con lo scopo di apprendere". Ovvero la mastery, il padroneggiamento di una disciplina, di uno schema, di uno strumento musicale, di uno sport, è fonte di divertimento. Nella sua equazione, la storia è un veicolo di apprendimento. L'esempio degli scacchi è chiaro, la finzione aiuta a decifrare le regole stesse del potere sul campo di battaglia: la regina è più importante di un soldato regolare ed è più pericolosa, poiché ha una rosa di mosse molto più ampia. Potremmo apprenderlo senza la finzione? Sì, ma sarebbe più difficile. E cosa sarebbe Space Invaders senza la finzione dell'invasione aliena? Vettori e numeri. Stesse meccaniche ma nessun coinvolgimento. Questa stessa funzione della narrazione dettata da Koster è, allo stesso tempo, ciò che la definisce come un elemento di importanza secondaria. Voglio condividere con voi uno schema dallo stesso capitolo che può portare a qualche riflessione:


  • I giochi tendono a insegnare tramite l'esperienza diretta, le storie insegnano indirettamente.

  • I giochi vanno forte sull'oggettivazione, le storie sull'empatia.

  • I giochi tendono a quantificare, classificare e a ridurre. Le storie a tendono a sfumare, approfondire e a dettare distinzioni più sottili.

  • I giochi sono esterni - intorno l'azione delle persone. Le storie (quelle buone) sono interne - intorno le emozioni e i pensieri delle persone.

  • I giochi sono generatori di narrativa del giocatore. Le storie forniscono una narrativa preparata.


Non ci interessa se siamo d'accordo o se è esaustivo (quello sta a noi lettori, intimamente), ma analizziamo l'ultima voce. I giochi non sono storie, ma i giocatori possono creare la propria storia. E lo possono fare con gli elementi di finzione messi in campo dal gioco stesso. Sempre Koster: "Una trama è una sequenza di eventi causali messi in ordine da un autore. (...) Una narrazione è una sequenza di eventi visti da una prospettiva." Ovvero, il giocatore può vivere la propria narrazione, che potrà anche differire completamente dalla trama del gioco scritta dagli sviluppatori. In fin dei conti, la nostra partita a un gioco coincide con la nostra personalissima narrazione, di cui siamo autori/spettatori/attori. Potremmo andare oltre, ma vi invito a leggerlo. In questo libro, Raph Koster non tratta di Narrative Design ma dei meccanismi del videogioco nel loro insieme, in un percorso molto più articolato del riassunto di questo post. E, ovviamente, è la visione di un professionista, ma ne esistono altre. A mio giudizio, resta una di quelle letture obbligate per un appassionato di videogiochi, che offre numerosi spunti per una riflessione sulla creazione di un titolo e sulla necessità stessa di giocare. "That's why games matter".

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