Uno dei pochi giochi che valga la pena platinare negli ultimi anni.

Sono sul treno per andare il lavoro, la pioggia batte contro il finestrino della linea suburbana e per convincermi che la vita è ancora degna di una risata mi ascolto il podcast in differita del 16 Bit di Francesco Serino di Multiplayer.it. Nel suo fare sornione e schietto, la botta la mena spesso, ed è questo che rende così interessante ascoltarlo. Ora, un utente di Twitch si vanta di aver platinato un gioco che non ricordo, forse Ghost of Tsushima (di cui devo ancora parlarvi) e, suo malgrado, accende la miccia per un dibattito abbastanza acceso tra Serino e gli spettatori. Il giornalista si scaglia contro la schiavitù capitalista in cui ci rinchiudono i trofei PlayStation e gli obbiettivi Xbox. Una lunga checklist di azioni che di ludico hanno poco o nulla, ma che "vanno fatti" per provare a se stessi di aver sviscerato un videogioco o, peggio, di esserselo goduto davvero. Ma mentre alcuni trofei/obbiettivi fanno appello alla nostra abilità o alla nostra curiosità e possono essere vinti semplicemente giocando, magari alla prima run, altri (la maggior parte) esigono combinazioni arzigogolate di ricerca, azioni non intuitive e un monte ore da capogiro. Platinare i giochi provoca lo stesso divertimento che si prova nel correggere i compiti di una classe di 30 alunni, almeno è quello che immagino io. Quindi, tanta concentrazione per... cosa?
"Oh, prendi con le pinze ciò che ti dico"
Io non sono un tipo da platinare un gioco, né da cercare di raggiungere il 100% se anche solo un'attività del gioco in questione non mi diverte. Ricordo con piacere di aver finito completamente molti Mario della serie New o Super Mario 3D Land per Nintendo 3DS. Il ritrovamento delle tre monete d'oro in ogni livello è un'azione che trovo sinceramente divertente e un buon esempio di ciò che spinge la mia voglia di rigiocare un livello, magari appena finito. Un equilibrio perfetto tra qualcosa che hai già superato (quindi di ciò che già conosci) e la sua difficoltà segreta, che è l'equazione di tantissimi giochi Nintendo, la compagnia del "gioco per tutti" per antonomasia che riesce ad incantare anche un hardcore gamer. Ma sto divagando. Io non amo platinare... ma con Life is Strange: True Colors ho riscoperto il piacere del piccolo trofeo azzurro sulla mia PS5. Anzi, se un amico mi chiedesse consigli sul titolo di Square Enix, gli direi di platinarlo per goderselo appieno. Sì, esattamente quello che dicono tutti i videogiocatori troppo ansiosi di mostrare i propri badge, con la differenza che True Colors è, di fatto, goduto solo a metà senza i suoi trofei. Sia chiaro, non credo che la collezione dei trofei fosse a monte delle scelte di design dei suoi sviluppatori, il fatto è che sono così bene iscritti nell'ecosistema di gioco da farsi almeno venire un dubbio. La stragrande maggioranza dei trofei dell'avventura di Alex Chen sono infatti azioni di gameplay che siamo naturalmente stimolati a compiere, ovvero l'interazione con particolari oggetti dello scenario che hanno qualcosa da dire sui loro possessori e le loro storie. In un gioco di stampo fortemente narrativo, mai scelta potrebbe essere più in linea con il gameplay, ma soprattutto non è massacrante nei confronti delle nostre energie e del nostro tempo.
La storia segreta
In drammaturgia, capita di imbattersi nel termine "storia nascosta" o "segreta". Viene usata anche nella narrativa ed è rappresentata dalla scia di briciole che l'autore lascia per costruire la seconda parte del suo testo, in genere quella che si apre dopo una rivelazione o un evento climatico di qualsiasi sorta. Tra i primi a lanciare il seme della storia nascosta c'è il drammaturgo russo Anton Cechov con un semplice aneddoto fittizio:
"Un uomo è a Montecarlo, va al Casinò, vince un milione, torna a casa, si suicida."
In questo nucleo di storia, grazie all'azione spiazzante del suicidio, intuiamo che c'è qualcosa che non è stato scritto, ma che è insito nel racconto. È semplicemente omesso. Nella causa-effetto dell'aneddoto, il finale crea scissione, che è esattamente quello che vuole creare l'autore, ma se sviluppasse questo nucleo in un soggetto (o sinossi), potrebbe avere lo spazio per seminare gli indizi per una storia segreta, che è quella che porta al clou. La scissione tra la storia immediata e la storia segreta è un dispositivo potente, riscontrabile tanto in letteratura (Gente di Dublino di James Joyce, Fight Club di Chuck Palahniuk) quanto in teatro (Woyzeck di Georg Büchner, Blackbird di David Harrower) quanto nel cinema (Oldboy di Pak Chan-uk, Il sesto senso di M. Night Shyamalan). Storie parallele raccontate sottovoce, che danno un senso al finale di quella esplicita. E succede anche nei videogiochi.
Trofei parlanti
Ora, vuoi per il pubblico di riferimento generalmente giovanile, vuoi per poca abbondanza di veri sceneggiatori tra le fila dei narratori videoludici, ci sono pochissimi esempi di storie segrete capaci di capovolgere davvero gli equilibri della narrazione principale o di offrire una chiave di lettura diversa. Spesso manca un sottotesto, la struttura è troppo blanda e i personaggi sono troppo piatti. Potrei parlare di Silent Hill o di Bioshock Infinite, ma non prendetemi in giro, tra gli esempi più riusciti mi viene in mente Super Paper Mario, capace di offrire una visione diversa di quelli che credevamo buoni o cattivi via via che si prosegue, e grazie a una delicatissima costruzione dei personaggi, la storia segreta rende veramente il punto di svolta, un punto di non ritorno. Ciò che sai una volta approdato al finale non può non condizionare ciò che sapevi (o credevi di sapere) all'inizio. Ecco, i trofei di Life is Strange: True Colors sono fortemente legati alla sua storia segreta. Alex Chen, una specie di telepata delle emozioni, riesce a percepire ciò che provano e pensano le persone e, nel caso in cui i loro oggetti siano intrisi di un forte sentimento o testimoni di un evento che li ha segnati, riesce a sentire una storia anche solo fissando un ombrello. Questo significa che conoscere i personaggi di True Colors equivale anche a doverne esplorare gli oggetti, almeno se si vuole andare a fondo. Ciò che è davvero stimolante, tuttavia, è che spesso capiremo aspetti importantissimi della vita di un personaggio che altrimenti non scopriremmo. Un telefono con cui qualcuno ha avuto una conversazione importante, un giubbotto che indossava in una situazione di stress e così via. E, trovato un oggetto (o "ricordo", come dice il gioco), otteniamo un bronzo sul nostro profilo PlayStation. Si possono trovare tutti nella prima run, rendendo la costruzione della storia segreta fin da subito il più onesta possibile; il gioco ci mette a disposizione tutti gli oggetti (che non sono tantissimi, altra cosa per cui ringrazio questo titolo) per intuire gli equilibri della cittadina di Haven Springs, il suo passato e, manco a dirlo, ciò di cui si tace. Non troverete uno spoiler tra i ricordi da collezionare, eppure andranno ad arricchire i personaggi che pensate di conoscere già, andando scolpirne ogni contraddizione, potenziandone la narrativa. Un'altra dimostrazione diretta in cui lo spazio e l'inanimato parlano al giocatore e raccontano un mondo. Mai ho visto questo tipo di "trofei narrativi". Questi trofei mi hanno parlato e mi hanno offerto piccolissime sfumature da cercare con gioia. Per la prima volta dopo molto tempo, ottenere il platino è stato un gioco.
Volete sapere altro sui videogiochi story-driven? Ecco qui una lunga lista di ciò che mi è piaciuto in Detroit: Become Human.