The Stanley Parable, Magritte e gli "Ehi, tu!" non necessari.

Sid Meier, creatore della saga Civilization, disse che un buon gioco "è una serie di scelte interessanti". Una catena di azioni del giocatore fatte con un senso e per attivare il gioco stesso e, quando presente, la sua narrativa. Ogni gioco manifesta la propria essenza in maniera diversa e l'azione del giocatore è differente a seconda del genere. Che si tratti di muovere il proprio avatar o il puntatore del mouse, agiamo attraverso l'interfaccia del gioco per, banalmente, "fare delle cose per farne accadere delle altre". Il fine ultimo è sempre lo stesso: divertire. Quando giocai per la prima volta a The Stanley Parable di Davey Wreden fui letteralmente folgorato. Nato come mod per Half-Life 2, divenne presto un titolo a tutti gli effetti e con ragione. La parabola di Stanley non era solo un gioco dalla narrativa geniale, ma un punto cardine nella cultura del videogioco. Nonostante venga ricordato anche come quello "che rompe la quarta parete", moltissimi altri titoli l'hanno preceduto in questo meccanismo narrativo. Ciò che lo rendeva speciale era la riflessione critica sul giocatore e sulle sue azioni. Era provocatorio, stimolante e assolutamente imprevedibile e perciò era spassoso. The Stanley Parable dava una dimostrazione di perfetta sintonia fra forma e contenuto, mettendoci nei panni di un anonimo impiegato in prima persona messo dentro un ufficio vuoto e con la sola "missione" di capire cosa succedesse all'interno del suo mondo, mettendo costantemente in dubbio ogni nostra azione, deridendoci, facendoci sbagliare e dandoci una lezione da brividi: il libero arbitrio dell'avatar/giocatore è programmabile. Un'enorme tesi ossimorica che portava alla stessa conclusione in (quasi) tutti i finali del gioco, ovvero che Stanley non è libero. Il tutto dolcemente suggerito dalla voce narrante di Kevan Brighting, da pelle d'oca. Nonostante il suo gameplay estremamente minimale, ciò che rendeva valida l'esperienza del titolo era proprio la sua essenza. Il titolo di Wreden era quella stessa "serie di scelte interessanti" sia nel gameplay che tematicamente, una performance teatrale di osservazione partecipativa in cui la coscienza di sé era la chiave della storia, la scoperta dello spazio era la scoperta della nostra prigionia, del nostro rapporto con Stanley e della nostra funzione come giocatori.

È facile abbattere la quarta parete se sai come farlo
Non occorre scomodare grandi esempi come Psycho Mantis di Metal Gear Solid (ne parlo qui) e il modo in cui lesse le nostre memory card. Saltare al livello extra-diegetico e rivolgersi direttamente allo spettatore è una pratica molto più comune di quanto si pensi e quasi mai con fini "provocatori". Non si tratta di vere e proprie meta-narrazioni, quanto piuttosto di escamotage per dare una particolare informazione al giocatore. Basti pensare alla serie Pokémon. All'inizio di ogni avventura, la distinzione avatar/giocatore non è ancora in atto e il Professor Oak (o il corrispondente della regione) si rivolge a noi stessi per chiederci se siamo maschi o femmina, il nome, per parlarci delle meraviglie del mondo dei Pocket Monsters e così via. Durante la fase di personalizzazione del nostro personaggio in Fallout 4, egli ci guarda dritto negli occhi come se fossimo il suo specchio, mentre Girolamo in Animal Crossing ci rivolge delle domande che influiranno sull'aspetto del nostro abitante e della città in cui andremo a vivere (ed è l'unico momento del gioco in cui la visuale è in prima persona). Gli stessi tutorial sono un esempio ancora più comune: mentre impariamo a saltare, correre, eccetera, capita spesso che un personaggio (o un cartello, molto vintage) ci illustri i pulsanti da premere. Come fa quel nostro alleato a sapere che devo premere X per svolgere una certa azione? Come fa a sapere cos'è il pulsante X? Ecco, quarta parete sfondata. Se volete fare qualcosa di rivoluzionario, tenere a mente che questo meccanismo narrativo non era sconvolgente nemmeno nel teatro del '900. Brecht e Pirandello insegnano.
Il nichilismo
Mentre un tutorial è un momento in cui la narrazione viene quasi sospesa - anche per questo è il momento più odiato dai videogiocatori - ci sono giochi che fanno del dialogo diretto col giocatore l'intero fulcro del narrazione, addirittura del gameplay. A volte il gioco vuole sorprenderci e ci schernisce con la sua consapevolezza di sé, dimostrando che il giocatore non sarà mai padrone del mondo di gioco al 100%, ma lo è, appunto, lo script. La supremazia dello script sulla libertà, di cui The Stanley Parable ha fatto il suo tema, fa gola a numerosi programmatori che cercano l'impressione sicura che genera il maltrattamento del giocatore. Non fraintendiamoci: un po' di sano nichilismo, quello puntuale e in piccole dosi, è un buon modo per essere ironici, per ricordarci che stiamo solo giocando e soprattutto che il videogioco come opera narrativa è capace di linguaggi infiniti. Ma introdurre troppo Brecht e troppa negazione della propria componente di finzione rischia di snaturare il fine stesso di un gioco. È il caso di There Is No Game di Kamizoto, che ho scoperto esplorando lo showcase del builder Construct. Potete completarlo in pochi minuti, provatelo. Se non li avete, il succo è questo: una voca narrante cerca di convincerci che quello che stiamo giocando non è un gioco, ma "rompendolo" (smantellando il titolo, rompendo l'interfaccia, passando a quadri che non avremmo dovuto scoprire) si scoprirà che un gioco c'è, e anche una mini-quest per completarlo. Alcune idee sono azzeccate e il gioco, pur nella sua estrema brevità, ha ritmo. La voce narrante si ostina a ricordarci che quello che stiamo facendo non era parte del progetto del programmatore, che se procederemo oltre arriveranno i bug e che stiamo sostanzialmente sbagliando tutto. Ma poi si contraddice e ci spinge a continuare. Arrivati ai titoli di coda, la stessa voce si congratulerà con noi per non aver giocato al suo gioco. Ho chiuso la finestra. Ho riflettuto. E ho concluso che il viaggio nelle meta-narrazioni non dovrebbe mai procedere in questa direzione. Non ne parlerei se fosse un piccolo gioco flash scoperto solo per caso, ma la verità è che There Is No Game gode pure di una sua popolarità, quindi merita di essere considerato.

Fattell cu chi è megli'e te e fanc'e spese...
... Ovvero, "se te la fai con chi è meglio di te, poi dovrai farci i conti". Non sono campano, però è un proverbio che rende bene. There Is No Game utilizza il dispositivo narrativo dell'eliminazione totale della quarta parete, ma senza una giustificazione tematica. L'apparente sofferenza della voce narrante, terrorizzata dalle azioni del giocatore, non è mai un vero flaw, ciò che terrorizza lui non terrorizza noi - visto anche che i bug che lui teme non sono un villain ma compaiono per pochi secondi - rendendo così lo sforzo di mascherare la natura del gioco abbastanza superfluo. Tu, autore, vuoi convincermi che la tua opera non è di quel genere che mi aspetto. Posso accettarlo, ma perché? Ripetere a un lettore di un libro che non sta davvero leggendo un libro, per poi dimostrargli che invece sì! lo stava leggendo! porta veramente a qualcosa? Nel suo Tradimento delle immagini, René Magritte mostra una pipa e nega che sia una vera pipa, ponendo la retorica sulla rappresentazione come lettura critica della realtà e della funzione di un'opera artistica. Ma mettere in crisi la funzione di un'opera artistica è diverso da mettere in dubbio l'esistenza dell'opera artistica stessa (scusate lo scioglilingua). Paradossalmente, se un game designer mi dicesse che non c'è un gioco, io mi aspetterei un gioco divertentissimo, qualcosa che distrugga tutto ciò che conosco del gaming per ricomporlo in un genere del tutto nuovo, così come Il tradimento delle immagini è rivelatore di uno dei punti cardini della cultura dadaista e dell'arte concettuale stessa: l'arte non è solo figurativa. Cosa svela la narrazione di un gioco che dichiara di non essere un gioco, quindi? "Non pensare agli elefanti", ma se il giocatore accetta un'opera che propone un gameplay, una progressione (nel caso del gioco di Kamizoto, molto minimale) e un finale, potrà accettare anche l'ironia di un gioco che afferma che tutto ciò non esista o che non faccia parte dei piani. Ciononostante, le aspettative aumentano e la posta in gioco deve fare altrettanto. Un climax, una meccanica di gameplay raffinata. Persino una morale. Lo spettatore può essere sedotto con una grandissima "chiamata all'avventura", ma una volta che è tuo hai la responsabilità di dargli qualcosa di vitale. O semplicemente non ne sarà valsa la pena. Il gaming offre infiniti meccanismi drammaturgici, ma siamo sicuri che rompere la quarta parete sia sufficiente oggi?