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Breath of the Wild e lo spazio dei ricordi

Perché l'ultima avventura di Link è la più post-moderna di sempre.

Non è il momento, non è il momento. Non arriva mai il momento del riscatto, non arriva mai il momento per esplorare altro. Non arriva mai il momento di rivoluzionare. Passano giorni, poi anni, senza provare a contare quelli passati. Ma l’arte della posticipazione non è sempre negativa. Mentre il mondo col suo capitalismo ci spinge a sfide nuove, a volte troppo avverse, l’arte offre momenti piccole stazioni di riposo, dove il momento per finire, per passare alla prossima opera di cui cibarsi, può tardare. Accade quando ci concediamo il piacere di fermarci per studiare ciò che ci appassiona. E non ci sono sensi di colpa, perché siamo persi.

“L’essere persi” è un buon punto di partenza per cominciare a parlare di spazio e di tempo, ma soprattutto di spazio. E sempre lo spazio è un personaggio di The Legend of Zelda: Breath of the Wild. Anzi, oserei dire che è un personaggio comprimario. In termini drammatici, lo spazio di BOTW porta gran parte del conflitto in scena. Il regno di Hyrule è il mondo di gioco, ma è anche il primo a dialogare costantemente con Link. Non fraintendiamoci: la grandissima maggioranza dei giochi d’azione e di avventura ci proietta in uno spazio concepito per essere pieno di sfide, per creare gameplay e dare al giocatore la possibilità di dominarlo (o almeno di conoscerlo). Ma quanti spazi che offrono al personaggio giocante un vero conflitto drammatico conosciamo? Quanti spazi generano la storia invece di contenerla solamente? Spesso non è il momento di completare il gioco, non è il momento di andare avanti, perché vogliamo completare una side-quest che ci affascina o semplicemente vogliamo scoprire tutta la lore nascosta nel design ambientale di uno luogo. In certi giochi non è un temporeggiamento: è l’essenza stessa dell’identità del nostro personaggio.


Chi sono, dove mi trovo

Tutti i giochi, in realtà, portano la narrazione con l’esplorazione. Da Il linguaggio dei nuovi media di Lev Manovich: “Se il giocatore non fa niente, anche la narrazione si fermerà. Da questo punto di vista, lo spostamento nel mondo di gioco è una delle azioni narrative principali.” Ed è vero: per camminare, incontrare un personaggio non giocante, leggere un cartello, morire, avviare una cut-scene, essere imprigionato, vincere una battaglia, devo muovermi. Perché succeda B, devo fare A. Ogni gioco prende forma nella navigazione del suo spazio, prende forma perché lo animiamo e interagiamo con e in esso. BOTW, in questo, non è diverso da niente e Hyrule non è il primo mondo di gioco a “parlare”. Rapture di Bioshock offre un’ottima prova di design ambientale che riesce a raccontare tanto la sfera pubblica quanto le vicissitudini e la caduta della città, raccontando quindi almeno due epoche. Il mondo aperto di Fallout 4 ci mostra anche le sue fazioni, le architetture differenti delle società post-nucleari, i loro avamposti e insediamenti.


“Se il giocatore non fa niente, anche la narrazione si fermerà. Da questo punto di vista, lo spostamento nel mondo di gioco è una delle azioni narrative principali.” Lev Manovich

Tutto serve a raccontare il mondo in cui ci troviamo. Ma raccontarci dove siamo non sempre aiuta a capire chi siamo. Prendiamo un titolo completamente diverso, Undertale. Esplorare i suoi cinque ambienti principali non dà nessuna risposta esplicita che non sappiamo già (“Sono un umano caduto nel mondo dei mostri e devo trovare una via d’uscita”) ma certi dettagli possono aiutare a scalfire il dualismo bene-male, umano-mostro che ci viene insegnato dai primi minuti di gioco, la cui crisi è il messaggio stesso di Toby Fox, l’autore; più tocchiamo la sfera privata di Papyrus o Undyne, scoprendoli anche nell’arredamento non proprio spaventoso e maligno della loro casa (accessibile solo nella Pacifist Route, ovvero senza uccidere nessun mostro), più mettiamo in discussione chi siamo e come ci faremo strada fino alla Barriera che divide il mondo umano da quello sotterraneo. L’esplorazione dello spazio, in questo caso, viene modificata dalla nostra identità morale, che creiamo noi stessi nel corso del gioco. Ciononostante, è difficile che si arrivi a conoscere tutti i segreti di Undertale con la sola esplorazione (e soprattutto nella nostra prima run, senza aiutarci con un forum online) in quanto non è mai esplicito - lo è troppo tardi - che uccidere tutti o nessuno inciderà così pesantemente sul gameplay e persino sulla difficoltà. Il mistero sull’identità del nostro personaggio è parte dell’esperienza, perché nel mondo sotterraneo decidiamo chi siamo, senza un giudizio sul passato del protagonista che possa condizionarci. In alcuni casi è esattamente il contrario: scoprire lo spazio ci dice qualcosa sul ruolo che abbiamo. XIII della Ubisoft ci cala nei panni di un ricercato per l’assassinio del Presidente degli Stati Uniti. Il nostro alter ego non ha memoria di sé ed è braccato da polizia e misteriosi cospiratori. Ora, XIII è un FPS principalmente su binari e la trama del gioco è veicolata da dialoghi in-game e flashback. Avanzando capiamo due cose, che l’amnesia può essere un ottimo veicolo narrativo per spingerci a giocare/ricordare e che ogni oggetto dello scenario può essere d’aiuto. Niente di troppo elaborato, il più delle volte si tratta di documenti e collezionabili da leggere nel menù di pausa. Ma è una buona idea per elaborare un nostro identikit, per sapere se abbiamo già visitato una certa location (molti in XIII sembrano riconoscerci e ciò aiuta a creare maggiore tensione) e quando ha davvero avuto inizio il nostro intreccio. Non importa se lo farà servendosi di una cut-scene, quello che è importante è il nostro modo di indagare e di risalire alla narrazione. Questa dinamica di gameplay è il perno di molti generi, in realtà, e specialmente di un certo panorama indie che fa della narrazione il suo punto di forza: i “walking simulator”, benché abbia sempre odiato chiamarli così. Ben diversi dalle avventure testuali quali lo storico Cart Life o i simulatori di incontri, questi giochi vogliono effettivamente che noi… camminiamo. E tocchiamo, spolveriamo, scoperchiamo, accendiamo, rompiamo qualcosa all’interno di una sola stanza. Gone Home, What Remains of Edith Finch, The Vanishing of Ethan Carter… Quello che ci insegnano è molto di più che “camminare”. Indicano che il pubblico è maturo per fermarsi, rileggere, riflettere e ricostruire come principale azione ludica all’interno di un videogioco, servendosi di uno spazio per ordinare il tempo. In altre parole, sono giochi post-moderni.


Breath of the Wild è un vero teatro di fantasmi, in cui l’azione è da ricostruire e l’avventura sono la ricostruzione stessa.

Post-Hyrule

Mai avrei pensato che uno Zelda potesse contenere elementi post-moderni, ma lo fa e con efficacia, unendo forma e contenuto in un’opera che, per la prima volta della serie, parla di una caduta dall’inizio alla fine dell’intreccio. La linea temporale della vittoria sulla Calamità Ganon 10.000 anni prima è l’inizio di una storia lontana mai realmente vissuta attraverso il gameplay di BOTW se non attraverso quello che ne resta nello spazio, ovvero le reliquie Sheikah, i Colossi Sacri e gli squarci nelle montagne di Hebra. Ma quello è stato un racconto iniziato e concluso, quasi come un’opera di epica, con una struttura classicissima:

· primo atto: il regno sconvolto dall’ascesa del male.

· secondo atto: la chiamata dei Campioni e l’alleanza con gli Skeikah.

· terzo atto: la sconfitta della Calamità Ganon e l’esilio degli Sheikah.

Già in altri episodi della saga non abbiamo vissuto in prima persona quelle che erano le premesse, basti pensare all’introduzione di Wind Waker (che sembra essere il riassunto di Ocarina of Time, quindi un altro gioco), ma in BOTW si aggiunge un ulteriore livello del passato, che è quello che dà inizio alla narrazione post-moderna o post-drammatica. 100 anni prima, un altro Eroe, non lo stesso delle pergamene di 10.000 anni prima ma una reincarnazione, viene salvato per il rotto della cuffia e lasciato in un sonno profondo. Il regno della Dea Hylia perde la battaglia contro il Male. Il gioco inizia come tutti sapete, con la ri-esplorazione di una Hyrule distrutta, nei panni del Link di 100 anni prima risvegliatosi nel mondo del presente. E senza memoria. Non solo il nostro protagonista è amnesico, anche il mondo circostante sembra avere una memoria storica davvero troppo ridotta su quanto accaduto un secolo prima. Basti conoscere gli abitanti di Finterra, così lontani dai luoghi delle battaglie contro i Guardiani posseduti dalla Calamità da essere stati i primi a dimenticare nel corso delle generazioni. La caduta dell’Eroe non è parte di nessuna leggenda, è narrato solo oralmente e ricordato solo dai fantasmi. Oppure attraverso la tecnologia degli Sheikah. Questo è uno dei nuclei della narrazione non lineare sull’identità del Link di BOTW: i ricordi e le fotografie dei luoghi che ha visitato in passato custodite nella Tavoletta Sheikah.


Teatro di fantasmi

“Risalire alla narrazione”, ricostruirla, è un’azione molto, molto cara al teatro post-drammatico, dal quale provengo. Partire dallo spazio per costruire la propria storia è una pratica comune a molti artisti teatrali, che spesso utilizzano elementi terzi che non siano la fabula come materiale per creare conflitto e per determinare un personaggio o una relazione in scena (appunto, “oltre” le regole drammatiche adottate dal teatro canonico o borghese, per farla semplice). Antonio Rezza, Leone D’Oro per il Teatro 2018, ha dichiarato di costruire le proprie drammaturgie partendo dalla scenografia e dagli elementi trovati/costruiti dalla sua partner e consorte, Flavia Mastrella. Il risultato è “materico”, intuitivo e comprensibile, seppure la costruzione del testo non parta da una storia fatta e finita, ma da una serie di suggestioni, idee, parole amplificate dal dispositivo scenico. Un dialogo fra l’attore-drammaturgo e il suo spazio. Il teatro è la sede dove ho visto più meccanismi narrativi differenti e arditi, e trovare sempre più conferme che il gaming viaggi su un binario quasi parallelo è sempre elettrizzante. L'ultimo capitolo di Zelda è un vero teatro di fantasmi, in cui l’azione è da ricostruire e l’avventura sono la ricostruzione stessa. Forma e contenuto si uniscono armoniosamente, dando al giocatore una missione (ricostruire/purificare Hyrule) coerente con il suo personaggio e la sua ambientazione. E poiché partiamo da una condizione di oblio assoluto, l’unico modo per sapere chi siamo è esplorare le rovine di Hyrule, “la scenografia”, alla ricerca di personaggi che ci riconoscano e luoghi che stimolino la nostra memoria. Non solo potremo scegliere quale dei quattro Colossi Sacri liberare (e quindi quale dei rispettivi Ex Campioni incontrare per primo e apprendere indizi diversi sulla nostra storia) ma dovremo interpretare le fotografie della Tavoletta per capire in che luoghi sono state scattate e cercare di ricordare quei momenti, che sono la nostra storia prima della caduta, un secolo prima. L’unica testimonianza del privato del nostro eroe, nei suoi momenti di intimità con la Principessa Zelda, è affidata di fatto a un database per nulla esaustivo. In quale ordine cercare gli spot che riattiveranno i nostri ricordi? Anche questo è arbitrario, in un’altra chiara dimostrazione che l’intreccio dell’Eroe non è più così importante. Attivando le cut-scene corrispondenti ai luoghi dei nostri ricordi, avremo un racconto sparso nel tempo, che potremo ordinare solo rivedendo i filmati e cercando l’ordine giusto. Per molti, la storia di BOTW non è paragonabile a quella di Majora’s Mask o Twilight Princess per profondità, caratterizzazione dei personaggi, ecc. E sono d’accordo. Dalla sceneggiatura alla trama in sé, tutto è abbastanza infantile e senza grossi colpi di scena. Nessun personaggio si rivela più profondo dell’impressione che dà di sé nei primi secondi che lo vediamo (Daruk è goffo e compagnone, Sidon è sicuro e cavalleresco e via dicendo) e il nostro destino è chiaro sin da subito, prepararsi per la battaglia in quel castello con la nebbiolina viola e sconfiggere il Male. Ma nel grande sandbox che è il regno di Hyrule creato questa volta, la storia è qualcosa da riconnettere, purificare, ricordare, “camminare”. “Camminare la storia” è il gameplay di Breath of the Wild, trasformando la cosiddetta lore nel vero obiettivo del nostro viaggio a Hyrule. Non a caso, potremmo sconfiggere Ganon nella prima ora di gioco, se lo volessimo. E Nintendo quindi voleva che saltassimo la trama per arrivare subito al finale? No. È la scelta che ci viene data per creare la nostra propria meta-narrazione, una delle tante che fanno di questo titolo il più “post-Zelda” di sempre e che amiamo ormai da tre anni.

Ora che l’identità di Link è stata ripristinata e che il regno di Hyrule ha ritrovato la luce, che direzione narrativa prenderà il sequel annunciato all’E3 2019?

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